La pianura ha un fascino discreto. Lo trovo lontano dagli scempi del progresso industriale; lì riesco a rivivere le atmosfere agresti così lontane dalla mia quotidianità, ma che nel mio inconscio si agitano spesso irrinunciabili.
Mi basta lasciare una di quelle strade secondarie che corrono tortuose tra i campi - apparenti incongruenze in un territorio piatto - e imboccare lo sterrato che da qualche parte comunque mi condurrà.
Mi piacciono tantissimo i filari di alberi, piantati chissà quando e cresciuti come isole tra i campi.
Ne osservo le prospettive da tante angolazioni diverse: il fusto degli alberi è cresciuto ribellandosi alla geometria imposta, flettendosi prima a sinistra e poi a destra, sinuoso.
Tutt'intorno è il silenzio; il rumore del traffico non esiste, puoi udire solo lo sbattere delle ali di grossi uccelli, lo scorrere dell'acqua nelle rogge.
Mi siedo sul ciglio del fosso e lascio passare il tempo; sono arrivato senza fretta e ripartirò solo dopo aver fatto un pieno di colori, di azzurri, di verdi e di marroni in tutte le loro tonalità.
Ma anche di rosso e di bianco, i colori del "cavallo" che mi ha portato fin qui e che si fonde perfettamente col paesaggio che mi circonda.
Quando è il momento compio il rito finale, sempre uguale: indosso il casco, infilo i guanti, giro la chiave, premo lo starter, inforco la sella, abbasso gli occhiali, tiro la leva della frizione, innesto la prima e con un filo di gas riparto nella direzione opposta a quella da cui sono arrivato.
Fino al prossimo angolo incantato che troverò sulla mia strada...
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