provenza

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mercoledì 29 ottobre 2014

Ladakh

Va bene. E anche questa l’abbiamo fatta.
Così, quasi per caso, senza premeditazione, forse.

È ottobre, sono nel Ladakh per iniziare il mio viaggio in India e voglio vedere i monasteri buddisti disseminati nella valle dell’Indo.
E se invece che trovare un autista che ci accompagni, ci muovessimo autonomamente in moto, dico una sera alla mia compagna di viaggio?
Why not?
È la risposta che volevo! E fu Ladakh per caso...




Lungo la via principale di Leh affittano delle moto, ancora per pochi giorni perché la stagione turistica sta finendo prima del grande freddo.
C’è anche una Royal Enfield, nera, vecchia, irresistibile.
Concordo di tornare il giorno dopo e prendere la moto per 2 giorni, durante i quali conto di percorrere circa 300 km a est ed ad ovest della città lungo la strada che corre nella valle del fiume Indo.


La mattina alle nove siamo li, con tanto di carta stradale del Ladakh magicamente trovata in questa piccola e sperduta città.
L’abbigliamento non è l’ideale per affrontare la strada su due ruote ad altitudini che variano dai 3500 ai 4000 metri, in autunno: jeans, giacca North Face, scarpe da trekking leggero, kefiah da beduino della Giordania e un paio di vecchi guanti che il mio inconscio mi aveva fatto casualmente mettere nel borsone.
I caschi giocattolo sono gentilmente forniti dal noleggiatore.
A me spetta un jet; per cavalleria lascio l’integrale alla compagna poco avvezza al vento sulle gengive.


Il reperto di archeologia motociclistica parte al primo colpo ed il suo mono pompa dolcemente al ritmo di un mantra.
Mi immetto nel traffico di Leh, con un briciolo di timore.
Si sa, gli indiani hanno un concetto tutto loro di circolazione stradale… ma tutto sommato basta adattarsi al caos primordiale, lasciarsi trascinare dalla corrente, rimuovere ogni conoscenza delle regole, e suonare, suonare sempre il clacson.



La Royal Enfield d’altra parte è una moto facile e ha prestazioni tanto tranquille che non riesci proprio ad andare veloce. Meglio, perché l’efficacia dei freni è un concetto non sviluppato nel progetto.
Inizia quindi il nostro peregrinare per due giorni alla ricerca dei monasteri: Hemis, Thiksey, Alchi, Likir tanto per citare i più belli.
L’atmosfera che vi si respira, le preghiere e le puje dei monaci, giovani o vecchi che siano, dal viso sempre sereno, l’odore di incenso, i paesaggi che si ammirano dai tetti, le bandiere di preghiera colorate, i chorten bianchi, le lunghe mura ricoperte di pietre mani con i mantra scolpiti.
È tutto fantastico e da vivere in prima persona perché le parole non bastano.


Ma tra un monastero e l’altro c’è la strada vuota, senza traffico.
E c’è lo spostamento, con quelle piccole grandi esperienze di contatto umano che ci fanno amare viaggiare.
Guido tra montagne enormi, correndo su altipiani brulli e desertici, arrampicandomi curva dopo curva e ridiscendendo improvvisamente.



Il panorama è spettacolare. Davvero.
La Royal Enfield non ha ciclistica, è un mattone, ma non importa. Qui è più importante ammirare ciò che hai intorno, immenso, e viaggiare a 50 kmh lo consente.
Vorrei salire al Thorong La, il passo più alto del mondo, ma fa freddo, troppo freddo. Già a 4000 mt facciamo fatica a resistere con i vestiti che abbiamo addosso; figuriamoci a 5400 mt…


A Hemis arriviamo sotto qualche fiocco di neve. Se capitassimo in una nevicata a queste quote con il casco jet e il calzino di cotone credo avremmo qualche problema…
Magica è la confluenza dello Zanskar nell’Indo… due fiumi, due acque dai colori differenti, che procedono verso valle divisi e uniti nello stesso tempo, e che continuano a mantenere per un lungo tratto la loro individualità, prima di fondersi in qualcosa di nuovo.
Il fiume che si immette in un altro fiume non muore, origina una sua nuova vita, inizia un nuovo viaggio.


Mentre contempliamo lo spettacolo si fermano vicino a noi dei turisti indiani, di Calcutta, scendono dall’auto, ci fotografano, ci chiedono da dove veniamo.
Simpatici, ma ci fanno sentire esemplari di una specie rara e soprattutto comprendere che il nostro vizio di fotografare durante i viaggi le persone “esotiche” andrebbe gestito con grande tatto nel rispetto della loro individualità.


Quando arriviamo ad Alchi, un villaggio lontano dalla strada principale e al di la dell’Indo, abbiamo fame.
Mentre camminiamo tra antichi chorten cerchiamo un segno, una traccia che ci mostri che anche li può esistere un posto dove mangiare, vediamo due donne dai chiari tratti tibetani che ci porgono attraverso una rete dei piatti di riso condito con frutta secca e dei biscotti. Non ha l’aria di essere un ristorante…
Ci avviciniamo e spontaneamente prendiamo tra le mani quello che ci offrono ed entriamo nel cortile della casa. Ci sono dei tavolini e delle stuoie su cui ci sediamo per mangiare, rigorosamente con le mani, quanto ci è stato offerto.
Una delle donne ci raggiunge e ci versa due bicchieri di una specie di sidro fermentato di mela leggermente alcolico.


Dopo aver consumato sotto i loro occhi curiosi il pasto chiedo a gesti quanto debba pagare, porgo loro 100 rupie che rifiutano respingendo con forza la mia mano. Ospitalità inattesa ma che non mi sorprende.
Continuiamo a camminare in questo villaggio e troviamo una scuola con pochi bambini che giocano nel cortile. Il cancello è aperto ed entriamo.
Una maestra si affaccia da un edificio e ci fa segno di entrare. Siamo ospitati dall’intero “corpo docenti” della scuola nella “sala professori”.
4 donne e 1 uomo che per fortuna parla inglese e fa da interprete, che curiosi chiedono di noi, dell’Italia, dei nostri lavori e ci spiegano che hanno 9 alunni e pochi soldi dallo stato e che sono dispiaciuti per non poter dare insegnamento a più ragazzi. 
Dopo il canonico the tibetano con sale e burro, siamo pronti a ripartire, la strada per tornare a Leh è lunga e viene buio presto.


È importante la scuola in queste valli. Lo abbiamo capito il giorno prima a Karu, dove dopo aver mangiato un dal bath in un locale sulla strada impolverata, schifato da un gruppo di giovani turisti occidentali scesi da un fuoristrada Tata col loro driver, abbiamo chiesto quanto dovevamo pagare alla giovane donna che ci aveva servito e lei ha chiamato il figlio di 10 anni appena uscito da scuola e ancora con la sua divisa, che ci ha detto fiero “ one forty, please”. Conoscere le lingue straniere permette a queste popolazioni di poter gestire il turismo e quindi di avere una fonte di guadagno.



Particolarmente bello è il tratto di strada che da ovest rientra nella capitale: decine di chilometri di rettilineo che scende da un vasto altipiano e sullo sfondo, prima lontanissimo e via via sempre più vicino il palazzo reale di Leh abbarbicato sulla cima di ripido colle a sovrastare la città.



Rientrati a Leh il secondo giorno, riportiamo la moto all’agenzia di noleggio e la salutiamo; è stata un’onesta compagna di viaggio, parca nei consumi, sempre pronta ad accompagnarci con la sua flemma indiana su e giù per le montagne.
È stata una esperienza breve, fatta di pochi chilometri, un po’ di freddo, ma tante emozioni.



In programma per la prossima vita almeno una settimana intera, in estate, per ritornare a volare su due ruote tra le cime dell’Himalaya.